You dont have javascript enabled! Please enable it!
0%

San Calogero: spiritualità e patrimonio culturale di una comunità*

Data:
5 Luglio 2023

San Calogero: spiritualità e patrimonio culturale di una comunità*

La festa di San Calogero, a parte quanto nel passato si sia scritto circa le origini paganeggianti e folkloristiche, a mio parere, esulando dal contesto gesti e atteggiamenti ed applicandoli a ciò che dei culti precristiani conosciamo, essa è una squisita e variegata pletora di segni di devozione al Santo. Credo che negli ultimi tempi troppo si sia sottolineato l’aspetto folkloristico e poco quello devozionale/spirituale, anzi mi sembra che sia sia snaturato l’aspetto devozionale, togliendo il vero significato a meri gesti di devozione, facendoli diventare soltanto folklore.

Nel passato mi sono dedicato più volte in uno studio storico sulla festa di San Calogero a queste tematiche, che adesso, in modo più succinto, mi appresso a presentare[1].

Queste “tradizioni” che circondano la festa di San Calogero ad Agrigento non sono sempre state le stesse, ma nel corso del tempo alcune si sono modificate, altre si sono perse, altre ancora ne sono state inserite, divenendo in seguito gesti tradizionali.

 

La Chiesa

Segno importante per rilevare la devozione ad un Santo è l’edificazione di una Chiesa o nel passato anche l’esistenza di un altare, al quale era legata una rendita per la celebrazione delle messe, chiamata beneficio. Nel registro più antico dell’Archivio Storico Diocesano troviamo la notizia che esisteva già il beneficio di S. Calogero extra moenia di Agrigento il 17 luglio 1511[2]. Possiamo pertanto dedurre che già in quella data esisteva un altare o una Chiesa dedicata al Santo Taumaturgo. Esisteva anche un Canonicato di San Calogero extra moenia di Agrigento, del quale con una lettera datata 17 aprile 1560 veniva accettato il conferimento da Don Giuseppe de Lauricella[3].

Qualche anno dopo troviamo notizia che i Rettori e i Confrati della Confraternita di S. Calogero hanno raccontato che “la frequentia di populi et devoti che solevano andari a detta Chiesa è quasi mancata per respettuche nella strata, che innanti detta Chiesa hanno a loro spesi fatto per commodo di quelli che visitano detta Chiesa, ogni matina vi manegiano cavalli e con questo si impedisci la devotione di populi[4]. Comprendiamo dalle notizie ricavate da questa lettera che la devozione al Santo era diffusa, tanto che viene chiesto l’intervento dell’autorità ecclesiastica per evitare che la presenza di cavalli e delle loro deiezioni potessero allontanare i fedeli dal praticare la loro pietà verso San Calogero nella sua Chiesa.

 

La confraternita

Altro elemento essenziale per rilevare la grande diffusione del culto è la presenza o la fondazione di una confraternita. Così, con lettera del 4 dicembre 1573 Mons. Giovanni Battista Hogeda de Herrera, concedeva ai rettori della Chiesa di San Calogero extra moenia di Agrigento, la licenza di “ampliare et frabicare” la chiesa e di fondare la confraternita[5]. Questa notizia è importante, perché non solo testimonia la presenza di una moltitudine di devoti per richiedere l’ampliamento della Chiesa, ma anche la devozione che si andava accrescendo, tanto da voler creare una confraternita per curare la vita spirituale dei fedeli.

La successiva conferma di eseguire dei lavori ci dà notizia di una Confraternita già esistente. Così il 3 febbraio 1574 Don Giacomo di San Filippo concede ai sacerdoti, chierici e a molti altri Confrati della Confraternita di San Calogero licenza di edificare la Chiesa extra moenia di Agrigento e di eleggere il cappellano[6].

Non sappiamo se questa confraternita era stata eretta canonicamente ed approvata dal vescovo o se si era estinta e se ne stesse fondando un’altra. Succedeva spesso che quando il vescovo visitava le chiese domandava alle confraternite le bolle di approvazione e i capitoli, i quali o si erano persi, o le confraternite non erano mai state approvate, pertanto troviamo la notizia successiva circa la fondazione della Compagnia di S. Calogero e i suoi Capitoli del 30 giugno 1595[7].

 

La statua

Segno importante per la conoscenza della devozione ad un santo è la sua effige. La statua di San Calogero nel corso dei secoli ha avuto parecchi restauri a causa del modo di condurla. Il primo a descriverla è il Politi: «la statua è gotica, malconcia e tritata dai cattivi restauri. Nera come la pece la faccia, e con le braccia strette al corpo tiene un libriccino aperto, ed un bauletto d’argento al braccio»[8]. Un attento studio e descrizione della statua fu fatto da Mons. De Gregorio nel suo libro[9], ma ad esso mancava qualche elemento: datazione e autore. Fino ai nostri giorni, ed ancora qualcuno asserisce tali cose, si dice essere la statua di San Calogero di autore sconosciuto in un secolo imprecisato tra il 1400 e il 1600.

Nel 2009 lo studioso Antonino Giuseppe Marchese ha pubblicato un libro, ai più sconosciuto, sullo scultore Antonino Ferraro, pubblicando insieme anche articoli e documenti su altri scultori dello stesso periodo, tra cui di Marco Lo Cascio, uno dei più famosi scultori del ‘500 nell’ambito siciliano[10]. In questo testo l’autore colloca precisamente la realizzazione della statua che conosciamo sull’altare maggiore della Chiesa, poiché nelle sue ricerche si è imbattuto in un documento del 14 luglio 1578 rogato a Chiusa, il cui testo riporta in appendice[11], nel quale don Francesco Pinzarrone paga il Lo Cascio per la realizzazione della statua e la doratura di questa. Questa scoperta ci riconsegna l’autore di questa statua, oggetto di devozione da secoli; il periodo in cui fu fatta, come abbiamo visto di maggiore diffusione del culto, fondazione della confraternita e ampliamento della Chiesa. Ma anche di come era fatta, probabilmente come tutte le statue del tempo, indorate con abiti tipo broccato, cosa che si rilevava nel passato e che Mons. De Gregorio riporta nel suo libro[12].

 

Devozioni

Passiamo adesso a rilevare i segni della devozione che si sono evoluti nel corso dei secoli. Il gesto di devozione a San Calogero per eccellenza nel passato era il così detto ‘viaggiu ’n piduni’, a piedi nudi o con le sole calze, descritto già dal Politi con particolari coloriti e sprezzanti, che iniziava un mese prima della festa[13]. La Chiesa di San Calogero nell’800 non era soventemente aperta, ma dal mese di giugno alla prima domenica di luglio, «mese di San Calogero», ogni giorno accorrevano pellegrini per espletare il voto del viaggio, che poteva essere fatto per una settimana o per tutto il mese, solo andata o andata e ritorno in silenzio[14].

Questo voto poteva concludersi con la cosiddetta ‘lingua a strascinuni’, cioè dalla soglia della Chiesa il fedele con la lingua sul pavimento, tirato da due compagni, arrivava fino all’altare di San Calogero[15]. Il viaggio a piedi è continuato per tutto il secolo successivo e si continua a vedere ancora oggi frotte di fedeli che a piedi raggiungono il Santuario da varie parti della Città e dalle frazioni viciniori. L’altro voto disumano era già in disuso alla fine dell’800, così scriveva la De Luca: «altra devozione che va scomparendo e per fortuna con il progredire della civiltà, né il folklore la rimpiange di certo è la così detta lingua a strascinuni»[16]; mentre nel ‘900 il La Sorsa afferma che «per fortuna tale devozione inumana è stata vietata»[17].

Altra devozione offerta al Santo era la questua fatta per le vie della città con un vassoio e delle immaginette di San Calogero, talvolta con una rozza statuetta del Santo, per poi offrire in voto il ricavato nel giorno della festa. Nelle fonti consultate non si parla di una statua di una cerva usata per la raccolta, si può supporre pertanto che l’uso della cerva per la raccolta sia stato inserito nella seconda metà del ‘900, giacché nelle descrizioni minuziose del voto della questua fatto dai nostri è difficile che abbiano dimenticato di menzionarla[18].

Infine ‘lu dijunu addumannatu’ era, ed è ancora, un altro modo di onorare San Calogero. Nel passato i fedeli devoti, la vigilia della festa, giacché una volta nelle vigilie si digiunava, mangiava per quel giorno cibi avuti in carità, domandando per le vie della città un po’ di pane o di companatico[19]. Oggi è uso domandare del pane benedetto davanti al Santuario, conservando in un sacchetto ciò che si è ricevuto in carità.

Questo genere di devozione, se oggi può sembrare anacronistico, credo possa essere utile per riscoprire l’essenzialità della festa di San Calogero: l’umiliazione di domandare un po’ di pane ci può aiutare a comprendere chi è nel bisogno; il donare un po’ di pane a chi ce lo domanda ci aiuta a vivere la carità, così come il Signore ci ha insegnato; cibarsi la vigilia o il giorno della festa del solo cibo avuto in elemosina ci aiuta a recuperare l’importanza di un alimento tanto semplice e tanto essenziale per l’uomo, che mai deve essere sprecato.

 

Tamburi

Elemento costante e irrinunciabile per la festa di San Calogero è stato da sempre il suono dei tamburi. Un tono di festa e di austera solennità trasmette il suono di questi strumenti: un assordante frastuono per chi sta vicino e non sopporta il rumore[20], una soave melodia per chi li ode da lontano e per chi ne apprezza le sfumature musicali.

La più antica informazione della presenza dei tamburi e del modo di tambureggiare la abbiamo dal Politi nel lontano 1826[21]. Una descrizione così dettagliata che sembra quasi di veder dimenare le bacchette di legno e sentirne il suono. Tale maniera non si discosta dal modo di tambureggiare dell’Associazione ‘Tammura di Girgenti’ che oggi continua questa antichissima tradizione. Sebbene adesso sembri solo un elemento folkloristico della festa, nel passato quest’uso era sempre frutto di devozione, tanti come voto facevano tale servizio, non prezzolato, di araldi della festa e del Santo.

 

Doni votivi al Santo e folklore

In tutte le feste è sempre esistito l’uso di portare doni votivi al Santo, per propiziazione o per ringraziamento; anche Agrigento ha conosciuto e conosce questo costume. Nel corso dei secoli ha avuto delle trasformazioni, si è privilegiato un tipo di dono votivo, piuttosto che un altro, ma quasi tutti sono rimasti, se non come dono votivo, almeno come folklore.

Il Politi ci parla dei doni votivi portati al Santo Nero il giorno della festa: pane, frumento, fave, pecora, capra, vitella e cera[22]. Questi venivano conservati in sacrestia. Bisogna qui ricordare che in nell’800 ancora il convento era abitato dai Monaci Calogerini, pertanto questi doni servivano per il sostentamento del convento. Dopo il 1863 ci saranno i frati minori trasferiti dal convento di San Vito da adibire a carcere.

Lo Sclafani-Gallo, con il suo sarcastico eloquio, tra i doni votivi enumera i muli parati che portano frumento o altri cereali, le capre, le pecore, le galline, la cera e i pani, che servivano, a suo dire, per impinguare le tasche di chi organizzava la festa[23].

Se d’un canto quest’articolo sembra solo denigrare la festa, dall’altro ci fornisce utili notizie. Anzitutto la testimonianza della processione della cera il giovedì prima della festa, che il Politi sconosce. Da una Chiesa lontana[24] si portavano in una processione accompagnata dai tamburi i canestri pieni di cera, che doveva ardere davanti al Santo nei giorni della festa. Una descrizione più dettagliata è riportata dalla De Luca che ci informa che questa processione avveniva perché durante tutto l’anno la cera per San Calogero veniva portata nella Chiesa di San Francesco di Paola, da lì le candele, due o tre giorni prima della festa, venivano poste su ceste o vassoi ornati di nastri, garofani e menta e, accompagnate dalla banda, dai tamburi e dalle fiaccole, giungevano al Santuario tra una folla di devoti[25]. Come vediamo era una processione probabilmente agli albori, non aveva ancora un giorno definito, tanto che nel 1894 fu effettuata il venerdì[26] e ai primi del ‘900 il La Rocca parla del «venerdì della cera»[27], così anche l’Alajmo[28] e il La Sorsa[29].

La De Luca nel 1894 parla anche del venerdì alla Villa Garibaldi, dove per una nuova consuetudine, si andava la sera in giro ad ascoltare la musica, mentre la Villa era illuminata a festa[30]. Probabilmente all’inizio erano due momenti separati quelli della processione della cera e del venerdì alla Villa, poi verranno uniti in un unico giorno, giacché il La Rocca[31], l’Alajmo[32] e il La Sorsa[33] parlano nel venerdì della processione della cera animata da fiaccole e talvolta da una barca vecchia, tirata da buoi, illuminata di ceri e guarnita con festoni, che poi veniva bruciata, e del radunarsi presso la Villa Garibaldi, illuminata per l’occasione, per ascoltare alcuni concerti sino a mezzanotte, usanza, a loro dire, di recente consuetudine.

Altri doni votivi al Santo erano grosse candele di cera, che in tempi di benessere, quando «la miseria non era grande e la fede, forse, era più viva», erano ripiene di «pezzi di dudici», cioè di soldi, ogni pezza valeva cinque lire e due soldi[34]. Queste, se erano per grazia ricevuta in favore di un bambino, potevano essere lunghe quanto il fanciullo. Se questi era guarito, poteva anche essere portato al Santo vestito da monaco di San Calogero con un cero acceso per essere benedetto, oppure potevano essere donati al Santo Taumaturgo come ex voto i vestiti del bambino o anche uno dei tipici quadri che tuttora si ammirano nei locali adiacenti il Santuario, i quali pur non avendo alcun valore artistico, sono intrisi di una devozione e fede al Santo da testimoniarne appieno il vivo sentimento di affetto per il pericolo scampato[35], ma anche gambe, braccia, facce o cuori in cera o di pane per chi non poteva permetterselo. Poi pecore, capre, muli parati che portano frumento, orzo, fave, ognuno porta ciò che ha, anche i macellai portano su bastoni la carne ancora calda di un vitello adornata da carta dorata[36]. Pane devozionale erano i “cuddureddi”, piccoli pani senza lievito e senza sale di forme originali, i quali dopo essere stati benedetti dal sacerdote venivano mangiati con devozione, avendo recitato prima una preghiera al Santo[37]. Il dolce tipico consumato nei giorni della festa era la “cubaita”, che si vendeva nelle baracche davanti Porta di Ponte[38], e nei successivi anni “lu scialacori”, una specie di granita fatta di acqua, zucchero, cannella e colorante rosa[39].

 

La processione

Altro elemento per rilevare la devozione è la processione ed i gesti che ne derivano. Il Politi scrive ancora che «tre ore avanti mezzogiorno si scende dall’altare la statua e si incastra nella gran bara»[40], poi inizia la processione, che differisce da tutte le altre processioni, giacché rompono muri, trascinano la bara, rovinano il selciato, c’è chi si rompe una gamba, chi soffoca e la sera iniziano a dileguarsi i portatori e le autorità cercano chi riconduca il Santo in Chiesa[41].

Lo Sclafani-Gallo narra dell’uso di far sbattere la statua contro i muri, dato che la processione si muove in modo disordinato, e quei pezzi di muro venivano raccolti e conservati dai devoti come delle reliquie, così anche i fazzoletti che asciugavano il volto del Santo, che i fedeli portatori vedevano sudare[42]. Questo studioso è l’unico a riportare la notizia della guarigione dall’ernia per l’intercessione di San Calogero, seguito poi dal Pitrè e dal La Sorsa, che riportano la sua versione[43].

La De Luca riporta che a mezzogiorno iniziava la processione. Giovanotti si caricavano la pesante statua per condurla per le vie della città ed anche questo era fatto come voto al Santo. La processione, come ci informa Isabellina, due ore dopo giungeva all’Addolorata e lì lasciata. Il popolo dopo le quattro andava a prendere il Santo per ricondurlo alla sua Chiesa. Anche lei ci parla dell’uso di asciugare il volto del Santo e tenere i fazzoletti come reliquia[44].

L’anonimo templare spiega questo fenomeno scrivendo: «sulla vernice della faccia color rame si dà ogni anno prima della festa una mano di copale, in modo che luccica al sole e sembra trasudi», così i devoti lo asciugano[45]. Circa la festa afferma che un’ora prima di mezzogiorno si levava dalla nicchia il simulacro per la processione, che era seguita soltanto dal laico francescano. La statua veniva sbattuta per i muri involontariamente, perché perdevano l’equilibrio. Così si arrivava all’Addolorata, passando dalla Cattedrale, dopo tre o quattro ore di cammino[46].

Nel ’900 la festa e il modo di condurre la statua sono rimasti pressoché invariati. Aggiungiamo soltanto pochi appunti.

Il La Rocca annota: «quando finalmente verso il meriggio la messa solenne è terminata e il celebrante si è appena allontanato dall’altare, ecco un’onda di contadini, alti e robusti, bronzei, riversarsi in chiesa, in maniche di camicia, pronti a prender in loro possesso il Santo, a dar la scalata all’altare, senza tanti riguardi, e allora le dimostrazioni di affetto da parte dei contadini verso il Santo cominciano, e vanno dal bacio sulle mani, sulle spalle, sulla faccia e sulle labbra agli abbracci, ai morsi, agli urti, alle grida irrefrenabili di evviva. Fatto discendere il simulacro dall’altare e collocatolo saldamente sulla grande e pesantissima bara, cominciano i clamori e le dispute fra la turba di coloro che debbono aver l’onore di portarlo a spalla»[47].

Con l’arrivo in Diocesi di Mons. Giovan Battista Peruzzo la festa avrà una nuova ripresa religiosa. Anzitutto nel 1935 egli celebrò la Messa Prelatiza all’altare del Santo, avendo nell’omelia parole di ringraziamento per coloro che si avviavano senza discussioni a modificare certi modi di manifestare la fede al Santo, non conformi alle leggi della Chiesa[48].

Durante la seconda guerra mondiale (1941), anche se alcuni agrigentini, errando, dicono di ricordare diversamente, la festa fu sospesa nella sua manifestazione esterna ed ebbe solamente un carattere liturgico, lasciando la cappella del Santo aperta per esporlo alla venerazione dei fedeli durante il periodo di guerra[49]. Questa fugace notizia ci dà due informazioni preziosissime. La prima: il Santo era in una cappella chiusa e mostrato ai fedeli soltanto nei giorni della festa o nel mese di San Calogero. La seconda: con l’ingresso dell’Italia in guerra le manifestazioni esterne della festa furono sospese, molto probabilmente anche nei successivi anni; stando così le cose è difficile credere a quei racconti popolari per cui anche durante la guerra, mentre vi era il pane razionato, si continuava a sprecarlo, gettandolo sulla statua.

La festa avrà la sua ripresa nell’immediato dopoguerra, così da essere florida più di prima. Da un programma del 1949 apprendiamo essere presenti alla processione del mattino nella prima domenica il clero e la confraternita di San Calogero, cosa inaudita anche in tempi più recenti, e che venivano effettuate delle opere di carità nei confronti di orfani, segni che furono eseguiti anche nei successivi anni[50].

 

Il pane al Santo o ai portatori?

Come abbiamo appena accennato l’uso del lancio del pane sembra essere una tradizione inveterata. Già il Politi ne parla, ma la associa ad una particolare usanza: «Entrata la porta, le donnicciole escono dalle case terrane porgendo a quegli atleti del Santo, chi del vino, chi della carne arrosto, e chi de’ maccheroni. Dalle porte, dai balconi, dalle terrazze si buttano delle sporte di pane sminuzzato; quantunque nuotanti nel sudore, bruciati dai raggi ardenti del sole e senza abbandonar mai le spalle dalle travi al comparir della presa quei villani invasati si danno dei tremendi pugni»[51]. Come abbiamo letto il Politi prima accenna ai doni fatti ai portatori, quali vino, carne e pasta e poi al pane dato dalle porte, dai balconi e dalle terrazze che tutti prendono, non è detto che venissero buttate sul Santo, ma ai portatori. Ciò ci porterà ad un successivo approfondimento attraverso un documento che a breve citeremo.

Lo Sclafani-Gallo, invece, afferma che dai balconi le donne gettavano pezzi di pane nero in faccia al Santo, ed esclamava: «fortunato chi riesce a prenderlo!»[52].

Isabellina descrive la stessa situazione, paragonando al baccanale il frastuono di quella festa[53].

Il templare sembra essere più specifico: «quando passa la statua, dalle porte, dalle finestre, dai balconi, le donnicciuole, i ragazzi gettano pezzi di pane, ed altre cose ai villani che la portano. Costoro sudano come cavalli per la fatica e pel sole cocente, fermandosi ad ogni tratto per riprendere fiato, farsi sostituire, raccogliere le offerte, e bere vino, molto vino»[54].

Il La Sorsa parla di una pioggia di pane a fette che doveva colpire la statua e poi essere raccolto dai fedeli, che lo conservavano per mangiarlo come pane benedetto, recitando prima una preghiera[55].

Rileviamo allora una sostanziale discrepanza su questo argomento tra i vari osservatori della festa. Alcuni sostengono essere dato o lanciato dai balconi il pane ai portatori, altri alla statua. Una tradizione orale narra di una famigerata pestilenza occorsa in Agrigento, durante la quale il Santo Taumaturgo andava a curare gli appestati e gli agrigentini per non avere contatti con il Santo gli lanciavano il pane. Questa è molto probabile essere un mito, creato ad arte per spiegare un atteggiamento condannabile, del quale si era perso il significato originario.

L’origine di questo uso ci è narrato in una lettera del 9 giugno 1949 dell’allora rettore della Chiesa di San Calogero, don Beniamino Lauricella, al vescovo Mons. Peruzzo[56].

La lettura di questo prezioso documento ci informa anzitutto della somma considerazione che il rettore della Chiesa di San Calogero aveva della pietà popolare nei confronti del Santo Taumaturgo, associando i gesti che il popolo offriva al Santo con quelli che si erano verificati per l’arrivo della Madonna di Fatima in occasione del Congresso Eucaristico mariano del 1949. Circa il pane annuncia al vescovo che l’uso riprovevole del lancio di questo era diminuito, informandolo che tutti vogliono un pane benedetto, all’epoca ancora tagliato a fette, segno secondo il Lauricella che era confezionato così per essere mangiato.

Infine l’esito delle ricerche effettuate dal sacerdote insieme al paleografo dott. Giovanni Sciascia, ha portato a comunicare al vescovo l’origine di questa pratica, che è la stessa che abbiamo supposto leggendo il testo del Politi e dell’anonimo templare, cioè che il pane era per i portatori, i quali istruiti dai Monaci Calogerini portavano la statua digiuni e scalzi, potendosi nutrire di solo pane di San Calogero.

Egli sapeva che la propaganda spicciola sarebbe continuata, come ancora adesso in svariati consessi si continua ad affermare l’origine di tale pratica, ravvisandone le origini ora in una leggenda, ora in una speculazione senza alcun fondamento documentale o storico, perché di maggior presa fra il popolo, ma di fronte ad un inconfutabile documento credo che chiunque possa e debba mutare la propria convinzione.

 


* Conferenza tenuta dal Direttore dell’Archivio Storico Diocesano il 4 luglio 2023 presso la Chiesa S. Lorenzo in occasione di una tavola rotonda: “San Calogero: spiritualità e patrimonio culturale di una comunità”. Testi tratti da due precedenti articoli (vedi nota 1) con alcune aggiunte, proposti in forma colloquiale e familiare all’uditorio ivi convenuto.

[1] Cfr. G. Lentini, Appunti d’Archivio e brevi considerazioni circa la festa di S. Calogero in Agrigento, in C. Principato (a cura di), Rassegna stampa. Festeggiamenti in onore di S. Calogero (Agrigento 28 giugno – 8 luglio 2018), Tricase 2018, p. 6-9; Id., La festa di San Calogero in Agrigento tra l’800 e il ‘900. Nuove piste di ricerca, in C. Principato (a cura di), Rassegna stampa. Festeggiamenti in onore di S. Calogero (Agrigento 5 – 14 luglio 2019), Lecce 2019, 49-59.

[2] ASDA, Atti dei Vescovi, Reg. 1510-21, 52r-v

[3] ASDA, Atti dei Vescovi, Reg. 1559-60, 10v

[4] ASDA, Atti dei Vescovi, Reg. 1598-99, 240v-241r

[5] ASDA, Atti dei Vescovi, Reg. 1573-74, 233r-v

[6] ASDA, Atti dei Vescovi, Reg. 1573-74, 235v-236v

[7] ASDA, Atti dei Vescovi, Reg. 1594-95, 582587

[8] R. Politi, Il viaggiatore in Girgenti e il Cicerone di piazza ovvero guida agli avanzi d’Agrigento, Girgenti 1826, 50

[9] Cfr. D. De Gregorio, San Calogero. Studio sul Santo e il suo culto, Agrigento 20032, 75-77; 144-146.

[10] A.G. Marchese, Antonino Ferraro e la statuaria lignea del ‘500 a Corleone, Palermo 2009, 72-77, in particolare per San Calogero 75-76.

[11] A.G. Marchese, Antonino Ferraro e la statuaria lignea del ‘500 a Corleone, Palermo 2009, 171, doc. III.2.

[12] Cfr. D. De Gregorio, San Calogero. Studio sul Santo e il suo culto, Agrigento 20032, 145.

[13] Cfr. R. Politi, Il viaggiatore in Girgenti e il Cicerone di piazza ovvero guida agli avanzi d’Agrigento, Girgenti 1826, 48.

[14] Cfr. I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), 789.

[15] Cfr. V. Sclafani-Gallo, Il festino di Girgenti, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» 6 (1887), 74; I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), 789-790; Un Templare, Ricordi di Girgenti, Agrigento 18993, 49; G. La Rocca, La festa di San Calogero, Girgenti 1926, in E. Di Bella, La festa di San Calogero nel secolo scorso, Agrigento 1990, 49; S. La Sorsa, San Calogero nel folklore e nella leggenda, in «Lares», III, 3-4 (Dicembre 1932), 63-64.

[16] I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), 789-790.

[17] S. La Sorsa, San Calogero nel folklore e nella leggenda, in «Lares», III, 3-4 (Dicembre 1932), 64.

[18] Cfr. I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), 791; G. La Rocca, La festa di San Calogero, Girgenti 1926, in E. Di Bella, La festa di San Calogero nel secolo scorso, Agrigento 1990, 51; S. La Sorsa, San Calogero nel folklore e nella leggenda, in «Lares», III, 3-4 (Dicembre 1932), 64; Un Templare, Ricordi di Girgenti, Agrigento 18993, 52.

[19] Cfr. I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), 791.

[20] Cfr. V. Sclafani-Gallo, Il festino di Girgenti, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» 6 (1887), 74.

[21] Cfr. R. Politi, Il viaggiatore in Girgenti e il Cicerone di piazza ovvero guida agli avanzi d’Agrigento, Girgenti 1826, 49.

[22] Cfr. R. Politi, Il viaggiatore in Girgenti e il Cicerone di piazza ovvero guida agli avanzi d’Agrigento, Girgenti 1826, 49-50.

[23] Cfr. V. Sclafani-Gallo, Il festino di Girgenti, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» 6 (1887), 74-75.

[24] Abbiamo notizia da «Il cittadino cattolico», III, 27 (1893), che la processione partiva dalla Chiesa dell’Addolorata, mentre il successivo anno da quella di San Francesco di Paola, cfr. «Il cittadino cattolico», IV, 27 (1894).

[25] Cfr. I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), 792.

[26] Cfr. «Il cittadino cattolico», IV, 27 (1894).

[27] G. La Rocca, La festa di San Calogero, Girgenti 1926, in E. Di Bella, La festa di San Calogero nel secolo scorso, Agrigento 1990, 49-50.

[28] Cfr. A. Giuliana Alajmo, La festa di San Calogero di mezzo secolo fa in Agrigento, in «L’Amico del Popolo», 27 (1968),3.

[29] Cfr. S. La Sorsa, San Calogero nel folklore e nella leggenda, in «Lares», III, 3-4 (Dicembre 1932), 64.

[30] Cfr. I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894) 792. Questa consuetudine è attestata sin dal 1891, cfr. «Il cittadino cattolico», I, 12 (1891).

[31] Cfr. G. La Rocca, La festa di San Calogero, Girgenti 1926, in E. Di Bella, La festa di San Calogero nel secolo scorso, Agrigento 1990, 50.

[32] Cfr. A. Giuliana Alajmo, La festa di San Calogero di mezzo secolo fa in Agrigento, in «L’Amico del Popolo», 27 (1968),3.

[33] Cfr. S. La Sorsa, San Calogero nel folklore e nella leggenda, in «Lares», III, 3-4 (Dicembre 1932), 63-64.

[34] Cfr. I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), 794.

[35] Cfr. ibidem, 790-791.

[36] Cfr. I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), 791.

[37] Cfr. ibidem, 791.

[38] Cfr. ibidem,, 792.

[39] Cfr. A. Giuliana Alajmo, La festa di San Calogero di mezzo secolo fa in Agrigento, in «L’Amico del Popolo», 27 (1968),3.

[40] R. Politi, Il viaggiatore in Girgenti e il Cicerone di piazza ovvero guida agli avanzi d’Agrigento, Girgenti 1826, 50.

[41] Cfr. R. Politi, Il viaggiatore in Girgenti e il Cicerone di piazza ovvero guida agli avanzi d’Agrigento, Girgenti 1826, 51.

[42] Cfr. V. Sclafani-Gallo, Il festino di Girgenti, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» 6 (1887), 76-77.

[43] Cfr. ibidem, 76.

[44] Cfr. I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), 794-796.

[45] Cfr. Un Templare, Ricordi di Girgenti, Agrigento 18993, 51.

[46] Cfr. ibidem, 50-51.

[47] G. La Rocca, La festa di San Calogero, Girgenti 1926, in E. Di Bella, La festa di San Calogero nel secolo scorso, Agrigento 1990, 52.

[48] Cfr. «Vita nova», 12 luglio 1935, in E. Di Bella, San Calogero e la sua città, 124-125.

[49] Cfr. «Vita nova», 12 luglio 1941, in E. Di Bella, San Calogero e la sua città, 127-128.

[50] Cfr. Solenni festeggiamenti in onore di San Calogero, in «Giornale di Sicilia», 28 giugno 1949, in E. Di Bella, San Calogero e la sua città, 131-133; e Festeggiamenti in onore di San Calogero, in «Giornale di Sicilia», 1 luglio 1955, in ibidem, 137-139.

[51] Cfr. R. Politi, Il viaggiatore in Girgenti e il Cicerone di piazza ovvero guida agli avanzi d’Agrigento, Girgenti 1826, 50.

[52] Cfr. V. Sclafani-Gallo, Il festino di Girgenti, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» 6 (1887), 76.

[53] Cfr. I. De Luca, Voti e feste a San Calogero in Girgenti, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», I (1894), 796.

[54] Un Templare, Ricordi di Girgenti, Agrigento 18993, 50-51.

[55] Cfr. S. La Sorsa, San Calogero nel folklore e nella leggenda, in «Lares», III, 3-4 (Dicembre 1932), 68.

[56] ASDA, Fondo Amministrativo, 3. Agrigento, S. Calogero, ff. 1-2. Lettera riportata in G. Lentini, La festa di San Calogero in Agrigento tra l’800 e il ‘900. Nuove piste di ricerca, in C. Principato (a cura di), Rassegna stampa. Festeggiamenti in onore di S. Calogero(Agrigento 5 – 14 luglio 2019), Lecce 2019, 49-59.

Ultimo aggiornamento

15 Maggio 2024, 10:58

Tutti i contenuti di questo sito web (di seguito, il “Sito”) sono proprietà esclusiva e riservata dell'Archivio Storico Diocesano e/o di terzi soggetti ove indicati, e sono protetti dalle vigenti norme nazionali ed internazionali in materia di tutela dei diritti di Proprietà Intellettuale e/o Industriale.
DISCLAIMER / COPYRIGHT
L’utilizzo in qualsiasi modo ed a qualsiasi titolo di contenuti pubblicati on line sul Sito è strettamente vietato. Ogni violazione sarà perseguita a norma di legge.
È vietato scaricare in qualunque modo le immagini e i testi consultabili sul nostro sito. Ogni violazione sarà perseguita a norma di legge.
I contenuti pubblicati sul Sito non potranno essere utilizzate senza avere ottenuto una previa autorizzazione scritta da parte del Titolare e/o dagli aventi diritto che se ne riservano espressamente ogni forma di riproduzione ed utilizzo. Per l'inserimento dei materiali pubblicati sul Sito è necessario richiedere l'autorizzazione scritta del Titolare.

Accessibilità